mercoledì 20 giugno 2012

La stanza di mattoni


foto di Wilson Santinelli
dalla mostra fotografica "Di volti e di ricordi"
Cerasa, 16-17 giugno 2012


“Non so dire dove inizino le facce che finiscono nelle cose, e dove finiscano le cose nelle facce. Di una vita insieme hai colto il sussurro.”
A caldo, e non solo per l’esperienza immediata ma anche per le temperature già bollenti a giugno, ho attaccato in una bacheca queste parole.
La bacheca stava in una piccola stanza a pian terreno di un vicolo di paese. Gli ingredienti di una storia ci sono tutti o quasi. Gli spettatori sarebbero arrivati di lì a poco per la mostra fotografica “Di volti e di ricordi” (16-17 giugno 2012) di Wilson Santinelli.
Di Wilson avevo già visto alcuni scatti nel 2011, in una mostra in un altro paese, Serrungarina, che voleva interrogarsi sui luoghi.
Una faccia è un luogo. Una geografia di storie.
Le facce sono mute. Forse la fotografia, oltre allo sguardo di chi ci guarda senza mezzi in mezzo, è il linguaggio che vien dato ai volti. Ad ognuno il suo. Di chi ci mette la faccia e di chi la fotografa. Di chi la guarda e ascolta un discorso.
Stare in una piccola stanza di mattoni, con la penombra al punto giusto, è stata la miglior accoglienza che potessi sperare per visitare una mostra. Amo le cose piccole, il mio senso di spaesamento ne viene mitigato. Mi rigiro in pochi passi e non mi perdo.
Le fotografie di facce me le sentivo intorno con nessun senso di voyerismo addosso. Ho avuto la sensazione di essere anche io una faccia appesa tra le altre. Appesa senza il peso della solita inquietudine che mi prende troppo spesso.
Le facce erano di vecchi del paese, Cerasa. Non credo stonasse la mia, che sto più o meno nel mezzo della vita, se fossi a metà del tutto. L’inquietudine rende vecchi e nuovi al tempo stesso,  cercatori di una continua ed inarrivabile oasi di pace. Non so se i vecchi posati sulle tele, sono invecchiati inquieti. So però che di alcuni ho invidiato il gesto. Il gesto di tenersi accanto al compagno di una vita, il gesto fragile e saggio, tenero e struggente di tenere fra le mani un oggetto che raccontasse a simbolo la loro esistenza.
Avrei voluto avere un tempo lungo e solitario per restare in quella stanza con tanta intensità di storie. Avrei voluto onorare quelle facce ascoltando un filo del discorso che ho tagliato troppo in fretta.
E’ stato come sedere in una panchina nella piazza di paese, a guardare chi passa e a intercettare voci che si avvicinano passandomi davanti, proseguendo ognuna verso un vicolo, una porta, un negozio.
Il senso di stare in un paese è anche questo, con una leggerezza che non è sempre facile, appesantita dalla troppa vicinanza che sfocia a volte in un’invadenza in cui anche i muri parlano.
Ecco, Wilson Santinelli ha avuto la fortuna di cogliere questa vita. Per fortuna non intendo nulla di casuale, ma ciò che avviene se ci si prende la briga di esserci, di prendere una posizione nella vita e di accoglierne quel che c’è.
Chissà come si son sentiti i vecchi che si son fatti fotografare. Ognuno era lì con una densità sobria e fragile.
Chissà cos’hanno provato a stringere fra le mani quell’oggetto che stavano mostrando.
La fotografia è un momento, è uno scatto. Quando chi fotografa non ha l’idea di chiudere tutto in un’istantanea, quel gesto parla di una storia, è solo un punto lungo il percorso della vita.
Wilson, non so se consapevole o meno, ha aperto qualcosa. Ha portato le storie al centro e queste hanno potuto dialogare fra loro e con chi ha avuto la grazia di ascoltarle nella piccola stanza di mattoni.

Il sito di Wilson:


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